Dividere la vita con un’insegnante Feldenkrais, essendolo a mia volta, ha indubbi vantaggi (e qualche svantaggio… ma non ne parlerò in questa sede). Quando ci si sente insicuri di fronte a una qualche esperienza motoria, nota o ignota, ci si ritrova accanto qualcuno di competente e ‘gentile’ – nel senso del Metodo, ossia di qualcuno che rispetta i limiti e, anzi, sa di partire proprio da lì per ‘migliorare il migliorabile’ (che non è poco, ma molto di più di quanto siamo soliti vivere).
Prima di addentrarmi nel racconto vero e proprio delle scoperte recenti sul mio camminare in montagna è bene che vi racconti una storia.
A seguito dell’operazione chirurgica cui mi sottoposi circa vent’anni fa per risolvere le pene afflitte da due ernie del disco a livello lombare, mi sono ritrovata a convivere con una parestesia, una specie di leggera anestesia alla gamba sinistra (mignolo e lato esterno del piede), che sale un poco lungo il polpaccio: tale riduzione della vitalità percettiva dei tessuti ha come conseguenza di farmi sentire, di solito, in appoggio non perfettamente stabile… In pratica, se cammino in montagna oltre le tre ore, inizio ad inciampare e a prendere storte al piede sinistro.
E ancora, proseguendo a descrivervi la mia immagine corporea di debolezza – del potere risanante del Metodo sulle immagini di sé si parlerà senz’altro in altri articoli del blog –, lamento a volte una pesantezza muscolare diffusa, in particolar modo agli arti inferiori; più in generale, sono abituata a pensarmi come avvinta, sovente, da una sorta di indolenzimento, che ho via via attribuito a una mia inettitudine (“non mi alleno abbastanza”, “in questo periodo fumo troppo” – quando fumavo! –), o a una sorta di ‘passività reattiva’, simile a quella di un mulo riottoso. Un’idea di me non proprio vincente, come potrete intuire, e che forse a qualcuno di voi può risultare familiare…
Nonostante ciò, non intendo affatto privarmi delle gioie della montagna! … l’aria fresca, i colori vividi, i panorami. Per cui, mi cimento, nonostante tutto, in brevi camminate, cercando di godermi ogni cosa al meglio.
Quest’estate, mi apprestavo a inerpicarmi con Giulia e i cani su di un bel sentiero di montagna. Dopo i primi passi sul sentiero, ecco che avverto subito, e appieno, il fastidio dell’appoggio asimmetrico e del passo incerto.
“Perché non provi a imitare il lato sinistro con il destro?”, dice lei. [Ndr: il lato buono del corpo imita quello meno buono! Nel Metodo, ci sono alcuni ‘trucchi’ che riproducono il modo in cui impara il Sistema Nervoso. Sapevate che se una gamba o un braccio più forte dell’altro si mettono ad imitare quello debole – nel suo modo di stare sollevato, piuttosto che di barcollare… – accade che il secondo migliora e tutto il sistema si equilibra, come ‘per osmosi’?] Ottima idea, penso io.
Mi impegno dunque nel lavoro di simulazione: il lato forte imita il debole (strano, vero? di solito, ci sentiamo tutti ‘obbligati’ ad imitare i più forti, arrancandogli dietro, e pensiamo che sia tutta lì la forza… E invece, è proprio il contrario!). Il piede destro deve imparare ad appoggiare poco e in maniera non uniforme… l’anca destra si deve ritrarre, in alto, come se non volesse lasciare il suo peso a terra. Faccio l’esercizio con cura, poi lascio andare tutto. Torno alla normalità del momento.
E dopo appena pochi minuti di imitazione, sento già che il corpo ha imparato qualcosa: il lato debole e quello forte si sono parlati, si sono capiti, aiutati. “Come va ora? Come appoggiano i piedi adesso?”, domanda Giulia. Cerco con il piede sinistro di ‘capire’ meglio, individuare con precisione i punti di contatto maggiore e minore del piede nella scarpa. Mi accorgo che il piede sinistro sente con chiarezza l’appoggio delle prime tre dita del piede, affievolendo la percezione del contatto a partire dal quarto dito, fino a non percepire quasi l’appoggio del mignolo. “Prova far scorrere il peso sulle prime tre dita, quelle che senti meno, ma pensando all’intero arco che fa il piede nel passo…”. (E qui, il lato ‘debole’ lavora… che diamine! è debole, mica inutile… ). “Intendi dire di ascoltare l’appoggio del peso sul tallone, poi lungo il mignolo e il quarto dito – per quanto riesca a sentirli –, per poi proseguire nell’ascolto alle altre dita?”. “Sì. Prova a ricordare al piede che può utilizzare tutta l’ampiezza del suo arco per scaricare il peso a terra. Così”. Giulia mi mostra con la mano l’arco che fa il piede quando passa dal contatto al sollevamento in aria, durante la camminata.
Ok, ci provo. Ascolto il passaggio del peso lungo l’arco del piede, dal tallone all’arco esterno e poi all’interno del piede. Arco, arco, arco, passo, passo, passo. A sinistra, a destra, a sinistra… Ed ecco che qualcosa, allora, succede alla parte alta del corpo. “L’anca si sta aprendo!”, esclamo con sorpresa. “Davvero? Bene!”. “Sì! Mi sento più… più dritta!”. “Guardami. Vedi qualcosa di diverso?”. “Sì! Sembri… diversa, in effetti” – l’insegnante Feldenkrais non ragiona in termini di ‘dritto’/’storto’… o almeno non dovrebbe (ma su se stessi è più difficile confrontarsi con le abitudini… Si sa). E il torace, come lo senti?”. “Mmm… più aperto, forse? Mi sento più forte! Guardami come vado su!”. La vecchia, nota sensazione di debolezza mi sembra lontana, lacerata da una luce, un’intuizione: mi sto arrampicando! I segmenti del mio corpo sono impilati gli uni sugli altri. E finalmente capisco (anche se probabilmente perderò questa consapevolezza… ma saprò riattivarla, forse, in modo più veloce, pronto, perché l’ho già conosciuta) coloro che amano camminare in montagna, la sensazione di arrampicarsi, di sentire il corpo che conquista la salita. “Mi sento più aperta, mi sembra di respirare meglio”. “E lo sguardo? A che altezza ti sembra di guardare?”.”Più in alto: mi sembra di guardare più in alto!”.
Di ritorno in macchina, mettendomi alla guida, mi accorgo di sollevare un poco lo specchietto retrovisore. La schiena è più appoggiata al sedile. Il respiro, aperto. I cani sono ben sistemati sul sedile posteriore. Sorrido: il mio umore è ottimo. (E.B.)